La fotografia non è oggettiva.

Un retaggio del passato

E’ diffusa la concezione che la fotografia sia lo strumento oggettivo per eccellenza perchè rappresenta fedelmente la realtà. Probabilmente questo pensiero deriva da un retaggio che risale alla nascita della fotografia. A partire dal 1839, con Nièpce e Daguerre, e dopo con i contributi tecnologici di Talbot, la macchina fotografica divenne il mezzo con cui mostrare direttamente la realtà. Addirittura il movimento letterario del realismo la esaltò per la sua componente oggettiva e realistica. Lo stesso Giovanni Verga si appassionò alla fotografia, e i suoi scatti divennero la perfetta trasposizione visiva dei suoi racconti realisti. Lo scrittore disse “No, non sono sfuggito al contagio fotografico e vi confesso che questa della camera oscura è una mia segreta mania”.

La fotografia oggi.

Credo, tuttavia, che tutto ciò appartenga al passato, a un modo primitivo di intendere questa arte, quando essa era limitata nelle applicazioni e nella diffusione. Oggi, la fotografia è prima di tutto una tecnica di comunicazione mediatica, proprio come lo può essere la scrittura, e tramite essa ognuno può esprimere le sue personali concezioni. Ciò che differenzia la fotografia dalle altre tecniche comunicative è che essa si basa sul catturare la realtà, tramite la manipolazione della luce. Tuttavia, a mio parere, il fatto che l’immagine sembra coincidere con la realtà esterna, non significa che essa sia oggettiva. Le fotografie non sono altro che simulazioni dei fenomeni esterni, proprio come lo sono le nostre percezioni. Ogni fotografo, infatti, impone il proprio punto di vista su ciò che osserva, e tende a scattare in base a ciò che le sue personali percezioni gli trasmettono in quel particolare attimo. In questo senso la fotografia è strettamente correlata ai sentimenti e alle emozioni, e quindi, estremamente soggettiva.

Se si mettono in fila 10 persone a fotografare lo stesso identico soggetto nello stesso momento, usciranno 10 immagini totalmente diverse. Questo perchè ognuno di noi, con i propri organi di senso, i propri ricordi, le proprie emozioni, interpreta la realtà esterna in modo totalmente diverso dagli altri, e tutto ciò si riflette, anche in minima parte, sull’atto di scattare.

Chiavi di lettura soggettive.

Ognuno possiede chiavi di lettura differenti, che derivano dal vissuto personale e dal carattere. Il fotografo tramite la manipolazione della tecnica, come la scelta della composizione, della luce e dei colori, può trasmettere un determinato messaggio, che si allontana totalmente dalla verità della realtà. Un fotografo non rappresenta la realtà. Al contrario, la realtà viene manipolata e cambiata. Il fotografo crea un mondo nuovo che rispecchia la sua visione delle cose e la sua soggettività più intima.

Il fotografo e la fenomenologia

Nel riflettere su queste dinamiche mi sono resa conto che il ragionamento condotto fin’ora possa essere meglio compreso facendo riferimento alla corrente filosofica della fenomenologia.

La fenomenologia nasce verso la fine dell’800 in reazione al positivismo e alla pretesa di dominare e conoscere oggettivamente la realtà esterna tramite il metodo scientifico e le leggi naturali. Fondata da Edmund Husserl, la fenomenologia consiste nello studio dei fenomeni per come essi si manifestano direttamente alla nostra coscienza, indipendentemente dalle leggi meccaniche o dalle interpretazioni attuate dal ragionamento logico. La fenomenologia vuole arrivare a cogliere l’essenza che sta alla base delle manifestazioni dei fenomeni esterni alla nostra coscienza.

In poche parole, il fenomenologo, dopo aver individuato l’origine e la tipologia di sensazioni che arrivano alla coscienza da parte di un determinato oggetto esterno, cerca di individuare cosa sta all’origine delle sensazioni stesse, andando oltre ad esse. Questo procedimento viene indicato con il termine “epoche” ovvero una sorta di “messa in parentesi del mondo”. Per esempio, alla vista di una sedia, il filosofo cerca di capire che cosa va oltre la percezione visiva della sedia in se’, e arriva a comprendere che alla nostra coscienza giunge la forma e il colore della sedia. Così comprende che forma e colore sono l’essenza dell’atto percettivo del vedere.

A mio parere, un buon fotografo deve essere consapevole di ciò che la fenomenologia ha messo in luce, e abbandonare la pretesa di poter rappresentare la realtà in modo oggettivo. Ci si deve concentrare sullo scovare un significato che vada oltre la rappresentazione dei fenomeni e degli oggetti in se’. La fotografia deve essere il mezzo per intuire l’illusione della realtà, e portare l’osservatore ad una sorta di risveglio, in cui si rende conto dei significati nascosti di ciò che lo circonda, e di come tutto ciò che conosce è determinato dalla sua personale interpretazione.